Dai diamanti ai minerali insanguinati

Creare un sistema europeo di autocertificazione del “dovere di diligenza” nell’acquistare stagno, tungsteno, tantalio e oro, provenienti da zone di conflitto.

In termini tecnici è quanto chiede il Parlamento europeo (e quanto dovrà approvare ora il Consiglio europeo) agli importatori di questi minerali. Ossia alle imprese europee produttrici di telefonini, computer e quant’altro contenga tantalio e company, estratti in Paesi come Repubblica Democratica del Congo o Nigeria.

Per inciso, il tantalio è un ottimo conduttore e viene usato soprattutto nell’industria elettronica.

Però è prodotto in gran quantità nelle nere miniere africane. Dove si sfrutta la manodopera e i ricavi si utilizzano per finanziare le guerre. Dunque, diventare più responsabili di ciò che produciamo e che proviene da zone altamente a rischio, è un dovere per l’Europa. Questo principio, se non proprio assodato, comincia lentamente ad entrare nella mentalità del Vecchio continente. Ma basta vincolare le multinazionali ad essere più “diligenti” nel controllo della filiera? Certamente non è sufficiente ma aiuta a prender coscienza di un problema.

Il percorso è lungo e i risultati non sono affatto scontati. Ma un primo dato è tratto. Lo scorso 20 maggio il Parlamento europeo ha dato via libera, in prima lettura, ad un testo che introduce la tracciabilità obbligatoria per oltre 800mila imprese dell’Ue che utilizzano questi quattro minerali.

La novità è che gli emendamenti proposti e approvati vanno un po’ oltre il testo deliberato dalla Commissione europea: rendono cioè obbligatori certi controlli. Attenzione: si tratta pur sempre di un’ “autocertificazione” ma stavolta non volontaria, bensì vincolata a dei controlli e a degli obblighi.

C’è da dire che esiste un precedente: è rappresentato dagli Stati Uniti che nel 2010 hanno approvato una legge, la Dodd Frank, che impone alle aziende quotate in Borsa e che utilizzano stagno, tantalio, tungsteno e oro, di certificare che questi minerali non provengono dalla Repubblica Democratica del Congo o dai Paesi confinanti.

E questa buona pratica viene citata nel testo: la proposta di regolamento adottata dal Parlamento europeo invita a <<legiferare in base al modello della legge statunitense sui “minerali dei conflitti”. La Commissione ha annunciato, nelle sue comunicazioni del 2011 e 2012, la sua intenzione di riflettere sulle possibilità di migliorare la trasparenza lungo l’intera catena di approvvigionamento, compresi gli aspetti legati al dovere di diligenza>>.

Nel caso americano ci sono delle differenze sostanziali, però. Perché si fissano dei paletti rigidi e si vieta del tutto il commercio con Paesi altamente a rischio. Nel caso europeo invece si fa il percorso inverso: non si vuol vietare di fare affari con un numero preciso di Paesi, ma si chiede alle imprese di controllare da dove vengano le materie prime acquistate. Il vincolo, dunque, è meno rigido. Ma inizia a strutturarsi l’idea di una tracciabilità, come nel caso del Processo di Kimberly che riguarda i diamanti “insanguinati”. Questo negoziato è iniziato nel 2000 in Sud Africa e si è concluso nel 2002 con l’adozione di un sistema internazionale di certificazione per i diamanti grezzi estratti e commercializzati legalmente.

Da allora, tutte le partite di diamanti grezzi esportate devono essere accompagnate da un certificato non falsificabile in cui si attesti che la spedizione non contiene diamanti insanguinati. Naturalmente le imprese multinazionali, oggi come ieri, protestano. Perché il controllo di tutta la filiera richiede l’esborso di soldi e un notevole impegno. Più semplice è comprare all’estero senza preoccuparsi minimamente degli effetti perversi di questi commerci.

<<Le imprese devono assumersi la responsabilità di garantire ai consumatori che esse procurano risorse naturali in modo trasparente e responsabile – scrive la Focsiv, prima sostenitrice di una Campagna europea sui minerali – Considerato l’elevato consumo di minerali nel mercato europeo, Focsiv, assieme a CIDSE (composta da 17 organizzazioni cattoliche europee e americane, tra cui la Focsiv) – ritiene che l’Unione Europea debba porsi in prima linea nel richiedere norme più stringenti sui minerali dei conflitti e promuovere la garanzia dei diritti umani>>.

Centoquaranta vescovi della Chiesa cattolica, provenienti da 38 Paesi in cinque continenti, hanno finora aderito alla Campagna, sottoscrivendo una dichiarazione per chiedere all’Unione Europea di adottare un regolamento più stringente ed efficace.

Stefan Reinhold, coordinatore dei lavori di advocacy compiuti da CIDSE sulla questione dei minerali dei conflitti, ha detto che <<gli Stati membri europei avranno ora la possibilità di sostenere e rafforzare ulteriormente questa legislazione. Ci sono molti esempi provenienti da tutta Europa, come la legge Due Diligence in Francia o la Modern Slavery Act nel Regno Unito, che mostrano una netta tendenza nel regolamentare meglio le attività delle imprese, in modo da evitare il loro coinvolgimento in violazioni dei diritti umani e dare garanzie ai cittadini di non essere complici attraverso i propri acquisti>>.

Certo il dubbio è lecito: quando la palla passa dalla Commissione e dal Parlamento europeo, al Consiglio europeo (ossia i capi di Stato o di governo dei 28 Stati membri dell’Ue) gli impegni si fanno meno impegnativi. Perché? Il Consiglio europeo dà dei pareri e adotta conclusioni sui più svariati temi, in base alle decisioni prese dai singoli governi. E’ qui che l’Unione europea scricchiola, sotto il peso della centralità ancora molto forte degli Stati-nazione. Le decisioni devono passare per i Parlamenti nazionali e non è detto che questi ultimi tengano fede a quanto deciso dal Parlamento europeo. «Sappiamo per esperienza – ha detto Emmanuelle Devuyst del Jesuit European Social Centre – che il Consiglio europeo cercherà di depotenziare i risultati positivi raggiunti in Parlamento. Dobbiamo convincere i nostri governi a rispettare le decisioni dell’assise di Strasburgo». Per far sì che questo non avvenga, la pressione sui singoli governi e sui Parlamenti nazionali dovrà essere molto forte nei mesi a venire.

Vediamo nello specifico i punti nevralgici della proposta di regolamento votata dal Parlamento di Strasburgo: <<Le imprese a valle, devono, nel quadro del presente regolamento e conformemente alle linee guida dell’Ocse, adottare tutte le misure ragionevoli per identificare e affrontare i rischi nella loro catena di approvvigionamento dei minerali e dei metalli contemplati dal presente regolamento. In tale quadro, esse sono soggette a un obbligo d’informazione sulle loro prassi di diligenza ragionevole per un approvvigionamento responsabile>>.

Inoltre <<la Commissione dovrebbe monitorare da vicino e comunicare gli oneri legati all’approvvigionamento responsabile, all’esecuzione di audit da parte di soggetti terzi, alle loro conseguenze amministrative e al loro impatto potenziale sulla competitività, in particolare delle Pmi>>.

La britannica Global Witness, uno dei think tank più attivi sul fronte della ricerca per individuare i nessi tra lo sfruttamento delle risorse naturali, le guerre e le aziende occidentali, è da anni attenta al caso della Repubblica Democratica del Congo.

Il voto della Camera di Strasburgo è stato accolto come un successo, o quantomeno un passo avanti, ma in certe zone africane purtroppo l’impegno non basta.

Sul suo sito la Global Witness scrive che nel Nord del Kivu, nella parte orientale del Paese, il conflitto tra ribelli e governativi va avanti da anni e che nonostante le garanzie da parte del ministro congolese delle Attività estrattive e Miniere, di adeguarsi alle richieste e standard di due diligence (dovere di diligenza) dell’Ocse, ci sono prove di numerose violazioni da parte di gruppi ribelli e forze anti-governative.

Il Congo, terra da sempre al centro di numerosi conflitti, spesso a bassa intensità (e migliaia di morti) generati da una corsa all’accaparramento delle innumerevoli risorse, possiede ingenti giacimenti di oro, diamanti, rame e coltan (dal quale si ricava il tantalio). Si tratta di un minerale indispensabile per l’industria high tech, di cui il Congo possiede l’80% delle riserve mondiali. Dalla ricchezza derivata dall’estrazione del coltan le popolazioni locali non hanno tratto alcun vantaggio. Al contrario le loro terre sono state espropriate e gli introiti hanno finanziato la guerra civile.

Dall’altra parte del mondo, invece, qualcuno ha tratto vantaggio eccome da questi commerci, arricchendosi a dismisura senza porsi domande e alimentando di fatto una conflittualità che viene poi attribuita al solo mondo “in via di sviluppo”.

(di ilaria de bonis)

 

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