Lo scandalo del cibo sprecato

Il mondo ha fame, eppure si continua a gettare il cibo. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, entro il 2075 la popolazione mondiale raggiungerà i 9,5 miliardi. Questo significa che ci saranno circa tre miliardi in più di bocche da sfamare. Oggi produciamo intorno ai quattro miliardi di tonnellate di alimenti all’anno, ma tra gli 1,2 e i 2 miliardi vanno dispersi.

Non solo: con loro finiscono sprecati ampi tratti di terra e notevoli quantità di energia, fertilizzanti e acqua utilizzati per produrre quegli alimenti. Ma cos’è esattamente uno spreco alimentare? Come sottolinea il Barilla Food and Nutrition Center (Bfnc) in un voluminoso rapporto sull’argomento, le definizioni proposte negli anni sono state molte. Il Centro suggerisce due grandi categorie: le food losses, ossia le perdite che si determinano a monte della filiera agroalimentare, principalmente in fase di semina, coltivazione, raccolta, trattamento, conservazione e prima trasformazione agricola; e i food waste, ossia gli sprechi che avvengono durante trasformazione industriale, distribuzione e consumo finale. Di fatto, nell’immaginario collettivo, si tende spesso ad attribuire lo spreco di generi alimentari all’utente finale che dimentica prodotti scaduti nel frigo o getta nella spazzatura un pasto non gradito, invece il percorso è molto più lungo e complesso.
Come rileva il rapporto Global Food – Waste not, Want not dell’Institution of Mechanical Engineers, istituzione di ingegneri professionali britannici, lo spreco avviene innanzitutto a causa di scarse conoscenze di pratiche agricole e ingegneristiche, mancanza di competenze nella gestione dei terreni agricoli, infrastrutture elettriche e idriche non adeguate, problemi di stoccaggio e trasporto merci e pratiche di marketing non appropriate (per esempio quella di scartare i prodotti non belli esteticamente).
Tracciando una sorta di mappa dello spreco, il rapporto evidenzia come, nei Paesi più poveri, in particolare quelli dell’Africa sub-sahariana e del sud-est asiatico, occorra migliorare le fasi di semina e raccolta (parte dei prodotti restano nei campi), immagazzinamento (troppo cibo finisce preda di roditori o altri animali perché conservato in luoghi inadatti) e trasporto (i generi alimentari si sciupano se trasportati su mezzi sgangherati che percorrono strade impraticabili). Nelle nazioni ricche, invece, il problema è maggiormente concentrato alla fine della food chain, la catena del cibo. I consumatori tendono a scartare con una certa disinvoltura i generi acquistati in eccesso (per aver ceduto a offerte o approfittato degli sconti “tre per due”) o i prodotti scaduti, non graditi o danneggiati. Di fatto, come ha evidenziato un’indagine condotta nella primavera 2012 dalla Fondazione Sussidiarietà insieme a esperti del Politecnico di Milano con il contributo del Gruppo Nestlé, in Italia lo spreco domestico è intorno all’8% della spesa alimentare settimanale, per un valore di quasi sette miliardi di euro l’anno.
Il problema è che nel Primo mondo <>.
Qualcuno, però, la pensa diversamente. Per esempio quelli di Last minute market fondato dal docente Andrea Segré. Società spin-off dell’Università di Bologna, nata nel 1998 come attività di ricerca e diventata nel 2003 realtà imprenditoriale, opera in particolare in Emilia Romagna ma anche sul territorio nazionale sviluppando progetti che prevedono il recupero delle eccedenze alimentari (beni rimasti invenduti per le ragioni più varie, ma ancora perfettamente salubri) e la loro successiva distribuzione a persone bisognose ed enti caritativi. Nei progetti, oltre a donatori, beneficiari e volontari, sono coinvolti anche gli assessorati alle attività produttive, alle politiche sociali e culturali degli enti locali, le prefetture e le Asl, in modo da garantire legalità e trasparenza. All’estero un esperimento interessante è quello di The People’s Supermarket, negozio nel quartiere di Bloomsbury (Londra) ideato da sir Arthur Potts Dawson, uno chef che ha fatto della lotta contro gli sprechi una vera e propria missione. Oltre ad offrire prodotti organici, a chilometro zero, a prezzi imbattibili, l’esercizio ha questa particolarità: i prodotti invenduti e quelli non esteticamente perfetti (ma ugualmente gustosi) vengono utilizzati per preparare i menu da asporto. Una goccia nel mare? Forse. Ma la lotta agli sprechi comincia dalla propria tavola.

di Luciana Maci da Popoli e Missione

I commenti sono chiusi